Il quadro generale che si presentava all’Italia appena unificata era lo scarso rapporto tra i vari Stati preunitari. Erano inoltre mancati assolutamente i rapporti con il Regno delle due Sicilie, intorno al quale il re Francesco II aveva eretto una sorta di “muraglia cinese” (come dissero gli esuli napoletani fuggiti dal regno), dopo la rivoluzione del 1848. Fino al 1859 Cavour aveva creduto impossibile assimilare al nascente Stato italiano il Regno borbonico, né fino a quel momento aveva dimostrato particolare interesse verso gli altri Stati della penisola (non era mai andato più a sud di Firenze e si vantava di conoscere e di amare particolarmente l’Inghilterra). Questo difetto del conte di Cavour veniva sottolineato allora soprattutto da Massimo D’Azeglio il quale, riferendosi alla sua politica, affermava che si era “fatta l’Italia senza averla mai studiata né conosciuta”. Durante la prima fase del processo di unificazione Cavour aveva espresso l’intenzione di costruire l’Italia mediante un programma di decentramento e di autonomie, sulla falsa riga di quanto aveva già fatto in Piemonte. Sul finire del 1860, però, aveva già cambiato il suo atteggiamento nel procedere politicamente. Secondo il parere di numerosi storici, a modificare il suo atteggiamento erano state le tante informazioni che gli spedivano a Torino i suoi collaboratori dal Sud. Colui che esercitò maggiore influenza su di lui fu Luigi Carlo Farini, il luogotenente principale delle province napoletane. Prima ancora di arrivare a Napoli, il 27 ottobre 1860 da Teano (dove si era fermato per assistere all’incontro di Garibaldi con Vittorio Emanuele II) esprimeva nelle sue parole la profonda delusione dovuta all’incontro con un ambiente assai diverso da quello immaginato. Le sue parole al riguardo sono estremamente emblematiche: “Che paesi sono mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile.”. Una volta giunto a Napoli, la situazione ai suoi occhi non cambiò, e Cavour continuava a ricevere lettere angosciate e scoraggiate per le condizioni di arretratezza generale che il suo corrispondente vi aveva trovato. Anche dopo la sostituzione di Farini e l’invio al Sud di altri funzionari, le cose rimasero sempre le stesse. Il conte si decise, così, di abbandonare definitivamente le idee di decentramento, perché aveva capito che il “costume e lo spirito pubblico” erano così distanti tra le varie parti d’Italia che le diverse realtà non potevano essere in grado di autogovernarsi, a meno che non si volesse mettere a rischio l’unità nazionale. Fu così che con i primi decreti emanati dal primo ministro Bettino Ricasoli si sottolineava la necessità di forzare il processo di fusione degli italiani e soprattutto del Mezzogiorno, e si adottò definitivamente l’accentramento amministrativo. Nel Meridione si manifestavano così le prime tendenze autonomistiche, che vanno interpretate anche come una protesta contro gli errori dei primi governi provvisori che avrebbero dovuto gestire la transizione. Il primo di questa serie di errori era stato commesso proprio dallo stesso Farini, il quale aveva chiamato a far parte del consiglio di luogotenenza anche gli esuli del 1848. Questi non solo non conoscevano le loro terre, in quanto le avevano abbandonate più di dieci anni prima, ma vi si erano distaccati a tal punto che molto spesso esprimevano giudizi di disprezzo. In tutto ciò il governo era intenzionato a operare con rapidità nel processo di integrazione dell’ex Regno borbonico, con il mantenimento della pubblica sicurezza e l’introduzione di una serie di lavori pubblici volti ad attenuare la disoccupazione.
Fu in questo quadro sociale e politico che si verificò l’esplosione del brigantaggio, che costituì un grave pericolo per l’Unità. La delusione delle masse contadine per il mancato mantenimento delle promesse di Garibaldi di un immediato miglioramento si unì al disfacimento dell’esercito borbonico, i cui soldati si ribellarono o perché rimasti fedeli al Borbone oppure perché volevano evitare le norme per la leva obbligatoria indette dal neonato governo italiano. L’ex re delle due Sicilie Francesco II intendeva servirsi dei briganti per riconquistare il regno perduto.
Questo fenomeno poneva il gravissimo problema dell’immagine di un’Italia debole e fragile nei confronti degli altri Stati europei. Era di fondamentale importanza mostrare all’Europa che il brigantaggio non costituiva un pericolo per la stabilità nazionale. Si decise allora di ricorrere alla forza, che appariva all’epoca per la maggioranza del parlamento l’unico rimedio possibile. Agli ordini del generale Enrico Cialdini, luogotenente a Napoli, furono inviati 50mila uomini. Agli assalti e alla ferocia dei briganti, l’esercito nazionale rispose con altrettanta violenza. Ci furono molti morti; sotto questo aspetto bisogna ricordare l’episodio di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi nella provincia di Benevento, che vennero completamente distrutti da un distaccamento dell’esercito, come risposta alle azioni commesse dai briganti, sostenuti dagli abitanti del luogo. Nel frattempo, nel novembre 1861, Cialdini fu sostituito dal generale Alfonso La Marmora. Vennero inviate, sotto il suo comando, ulteriori truppe tanto da raggiungere 70 mila unità. Nonostante l’ingente numerosità dell’esercito messo a sua disposizione e i poteri straordinari conferitogli, questa triste piaga continuava ad imperversare nelle campagne. La legge Pica, approvata nell’agosto del 1863, inflisse un duro colpo e contribuì al dissolvimento del brigantaggio. Questa legge, che prese il nome dal deputato che la propose, stabiliva nelle province dichiarate in “stato di brigantaggio” che i tribunali militari avrebbero dovuto occuparsi della giustizia, e alle giunte provinciali conferiva il potere di assegnare il domicilio coatto a “oziosi, vagabondi, camorristi” e a chiunque fosse sospettato di sostenere i briganti.
Qualche numero: le bande accertate (con un numero variabile da 5-10 persone a 100), furono 388; i briganti uccisi (dal 1861 al 1865) furono 13.853.
Antonio Marcello
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