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martedì 19 aprile 2011

Il Sassolino nella scarpa - Num.8 Anno1 (Marzo 2011)

Molti Comuni hanno organizzato manifestazioni e festeggiamenti in occasione della giornata celebrativa
dell’Unità d’Italia, il nostro invece, per distinguersi, ha pensato bene di autocelebrarsi “Nullità d’Italia”.

ARRIVO DI GARIBALDI A NAPOLI: TESTIMONIANZA

Ricordo che mia nonna mi raccontò quanto le aveva narrato sua madre a proposito dell’impresa di Garibaldi e di quando quest’ultimo con tutto il suo seguito giunse a Napoli e dopo una passeggiata trionfale attraverso la città la città giunse in piazza Spirito Santo e si affacciò da palazzo d’Angri per salutare i napoletani: Tutti i balconi delle case circostanti erano pieni di cittadini e fanciulle che erano state con fermezza pregate di indossare sui vestiti fasce tricolore in segno di gioia.
Quelle fanciulle, e non solo loro però, piangevano non per la gioia ma di dolore per quanto era accaduto e quanto ancora sarebbe avvenuto.
Avevano ragione. 

A.C.
La Redazione

NEL MEZZO DEL CAMMIN DI NOSTRA ITALIA UNITA,

augurandomi che  così possa restare, anche se sulla carta, per almeno altri 150 anni, fosse non per altro di provare ad unirla per davvero, curiosando in Internet tra siti vari, wikipedia e wikiquote, mi imbattei in una citazione di Massimo Taparelli, marchese d'Azeglio, e non quella più famosa secondo la quale egli disse: “Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani ”, ma la seguente:
A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba (Re Ferdinando II) bombardava Palermo, Messina ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso.”
Non era mica un rivoluzionario, questo uomo che fu  primo ministro del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852, a cui succederà subito dopo e nello stesso ruolo Cavour, e pure le sue parole fanno intuire che nel processo di unificazione dell’Italia, qualcosa non andò per il verso giusto. Il popolo invasore, che volle iniziare una vera e propria guerra, mai dichiarata, verso l’altro popolo, forse aveva sottovalutato che questo popolo, il nostro popolo, quello che ahimè d’allora fu definito meridionale,  non condivideva ne le volontà ne le esigenze che spinsero i Piemontesi ad annettersi alle terre e alle casse degli altri Regni Italici. Lo stesso D’Azeglio era contrario ad un’unificazione a sola guida piemontese ed auspicava la creazione di una confederazione di stati, cosciente delle grandi differenze tra i vari regni d'Italia e deciso a rispettare i legittimi sovrani, e per questo fu poi duramente attaccato dai Mazziniani e da Cavour che infine lo costrinse a dimettersi. Del resto essendo all’epoca il Regno delle Due Sicilie il più ricco, il più fertile, il più industrializzato, quale vento risorgimentale poteva mai udire tanto da poterlo indurre ad abbracciasi le croci dei sabaudi indebitati fino al collo e malati di pellagra. Si ipotizza che lo stesso Cavour decise, come diremmo oggi, di “scendere in politica”, perché da rilevante  proprietario terriero, non versasse in ottime condizioni economiche, e che una volta dentro, estese importanti relazioni d’amicizia e d’affari con banchieri, il che gli consentì di operare da una posizione privilegiata rispetto agli altri agricoltori e di cogliere importanti opportunità di guadagno. Il consenso politico non gli mancava, e nonostante ciò, per replicare all’elezione di importanti avversari politici il conte sviluppò un’offensiva politica incentrata sull’ordinamento giudiziario che la crisi economica non gli permetteva di concentrare altrove. A sentir ciò, non so di preciso dove fosse situato Cavour di cui Camillo Benso ne era Conte, ma a dire il vero non credo fosse poi molto distante da Arcore. Per paragonare forse quello che successe allora ai giorni nostri, è come se di due società quotate in borsa (tralasciamo gli accordi Chrysler-Fiat) quella più indebitata decida di prendersi quella più forte, è impensabile, ovvero, possono fondersi, ma sicuramente per volontà della più forte, e probabilmente in seguito alla fusione verranno licenziati molti dipendenti, ma della società più debole; invece quello che successe allora fu il contrario, lo stato più debole, in crisi, decise di invadere quello forte e nonostante anni di guerre alla fine riuscì nel suo intento di assoggettarlo, umiliando per sempre e da allora quelle genti che definì tutte, indistintamente, “Briganti”, primitivo aggettivo sostituito dall’odierno “Terroni” solitamente utilizzato per definire noi Italiani del Sud. Come fu possibile tutto questo? Non so. Oggi quando succede qualcosa che non possiamo spiegarci, spesso usiamo dire che ci sono dietro dei poteri occulti, i servizi segreti. Chi sa?! Sta di fatto che anche Falcone e Borsellino condussero studi secondo i quali si stabilì quasi per certo  che prima dell’Unità d’Italia non vi erano organizzazioni criminali così bene organizzate sul nostro territorio come lo sono diventate le attuali mafie, proprio perché, a differenza di queste, non erano, fino ad allora, così ben infiltrate nelle classi dirigenti. Qualche libro di storia, forse anche di scuola media, ci riferisce degli accordi presi da Garibaldi, un volta sbarcato in Sicilia, con gente poco raccomandabile del posto al fine di sovvertire il potere del Re, ma questi intrecci passano sempre come indispensabile strumento utilizzato dal valido condottiero per raggiungere il nobile scopo di liberare il popolo dall’oppressione del tiranno. Ma se così fosse, se stavano così male quelle genti sotto i Borbone, come ci ha “frettolosamente” raccontato Benigni dal palco dell’Ariston di San Remo, perché questa guerra durò così tanto? Non mi sembra che l’unanime rivolta voluta e condivisa interamente dall’oppresso popolo Tunisino nei confronti del regime di Ben Ali sia poi durata così tanto? E soprattutto perché i libri di scuola ci restituiscono solo  Mazzini, Garibaldi, Mameli, come eroi unici ed unitari del nostro risorgimento, e non ci raccontano mai gli scempi che inequivocabilmente, una guerra  d’invasione comporta? Ogni guerra è dura, anche quella tra nordisti e sudisti in America è stata dura, ma alla fine gli americani hanno potuto riconoscere tutti i propri eroi, tanto i nordisti quanto i sudisti. Perché a scuola, e soprattutto dalle nostre parti, non ci parlano mai dei martiri che si sono opposti con la resistenza ai soprusi perpetrati dagli invasori alle loro terre e alle loro donne? Eppure guardate che potrebbe tranquillamente trattarsi dei nonni dei nostri nonni!! Perché, se si sentiva così condivisa da nord a sud quell’idea risorgimentale di vedere l’Italia una e unita, da immediatamente dopo in poi si sentì altrettanto forte il bisogno di differenziare, in ogni campo, e in ogni modo, l’Italia del nord da quella del sud,  gli Italiani del nord dai Meridionali?   Se oggi è giustificato provare vergogna quando un premier e un parlamentare definiscono“eroe” un mafioso come Mangano, perché poi, sapendo che Garibaldi era un “professionista” delle rivoluzioni e che i tra i mille che arruolò vi furono anche avanzi di galera incrini a soprusi ed azioni criminali operate spesso a danno di donne e bambini, bisogna considerarlo per forza un eroe? o una sorte di messia? anziché definirlo un valoroso condottiero, forse abile strumento in mano a chi aveva pensato bene, sfruttando l’idea risorgimentale, di unire l’Italia anche per i propri interessi, cioè una forma antica del nostro moderno “predellino”. Lo stesso Garibaldi, forse pentitosi, nel 1868 scrisse in una lettera ad Adelaide Cairoli: «Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.»
Difficilmente i libri di scuola risponderanno mai a queste domande, perché forse non conviene a nessuno sapere una verità che possa oggi, a distanza di anni,  risultare scomoda. Forse per chi crede, come lo credevo io quando andavo a scuola, che per parlare di risorgimento potesse essere sufficiente imparare a memoria quelle poche paginette, così  tanto per compiacere l’insegnante, quello che è scritto nel libro di testo può anche bastare. Ma se invece si vuole approfondire quello che per molto tempo è stato nascosto, ci sono molti libri da poter consultare, e tra questi vorrei consigliare, (chiedendo scusa se mi impadronisco dello  spazio culturale che sul nostro giornalino viene curato dall’ottimo  Giuseppe Polito) “TERRONI” di Pino Aprile, in cui l’autore pugliese descrive i risultati  dei suoi anni di laboriose ricerche, citando tutte le sue fonti storiche ed i documenti ufficiali.  Credo sia fondamentale riscoprire le proprie origini, le proprie dignità, i propri dialetti, le diversità proprie della Nostra Terra, anche quelle geografiche, che proprio per questo la rendono unica al mondo e portarle finalmente in dote, e non sottrarle, all’Unità d’Italia, e affinché questa possa esserlo davvero e per tutti, bisogna doverosamente riconoscere gli errori,  le superficialità, i pregiudizi e le omissioni di questi primi 150 anni di storia. Oggi, a 150 anni di distanza da quella che fu la data storica che vide l’Italia unita, credo che l’Unità d’Italia sia ancora una missione incompiuta, proprio perché, secondo me, fatta l’Italia non si sono ancora mai fatti gli Italiani, e forse non basteranno altri 150 anni per farli, finché ci proporremo sempre divisi in opposte fazioni su ogni tema, anche sui problemi che ci accomunano tutti, da Nord a Sud, e che rischiano di farci diventare, tra non molto, noi tutti i Meridionali D’Europa. Per questo, per trovare insieme la forza di reagire, sono convinto che l’Italia, oramai, deve essere e rimanere unita, non può non essere neanche solo immaginata  non tale, ma credo che sia difficile raggiungere mai questa Unità di Popolo, perché i segnali che riceviamo quotidianamente dalla politica vanno altresì nella direzione opposta di una secessione, forse già in atto, esigentemente  richiesta da fanatici, tanto del nord quanto del sud, sottovalutata tanto da destra quanto da sinistra, con il paese che  sembra sempre più spaccato, tant’è che per la ricorrenza di questo cento cinquantenario spesso alla parola festeggiamento si sostituisce la parola celebrazione, più opportunamente usata per ricordare la grande opera di un ormai defunto. Mi piacerebbe, invece, che sul culmine dei festeggiamenti, il nostro Presidente della  Repubblica, magari sentendo ancora nelle orecchie le splendide parole di Mazzini sul senso della Patria e rispolverando un po’ di quel dialetto napoletano, che secondo me si  ricorda ancora bene, dica:
“ E mò basta!! Mettimc all’opera”.
Scusandomi se vi sono sembrato noioso, cito per l’ultima volta Massimo D’Azeglio, per dire:
Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso.

Vincenzo Minichino

UN TERRONE “MELANCONICO”

Se penso che la Carboneria fu fondata a Napoli durante i primi anni dell'Ottocento su valori patriottici e liberali, se penso ai Vespri Siciliani, se penso alla prima ferrovia Napoli-Portici, se penso che la prima raccolta differenziata  fu architettata e poi adottata a Napoli, vengo assalito da una tristezza e una rabbia perchè mi vedo appartenere ad una zona d'Italia  che rappresenta il "problema" in assoluto della stessa. Sfuggendo ad ogni forma di campanile, ed oggi, nel giorno del 150esimo anniversario dell'Unita d'Italia, sarebbe proprio grave, perchè rischierei di ritrovarmi come un pesce fuor d'acqua, vorrei chiedere a tutte le genti del sud, alle classi dirigenti di ieri, oggi e domani : ma un secolo e mezzo  non è stato sufficiente a porre fine alla "Questione Meridionale"??? Questo "benedetto" meridione, i propri mali, li ha almeno individuati?? Il GENERALISSIMO ci scosse, ci liberò e ci unì al settentrione.
Dopo un quarantennio e più avvertimmo il sacrosanto dovere di difendere l'Unità conquistata, combattendo, morendo nella prima guerra mondiale.
Il sacrario di Redipuglia è esempio di culto, di amor patrio, di onore, di forza e di italianità. Poi l'immigrazione, poi la Cassa del mezzogiorno adesso la Banca del Sud, a quando questa notte cederà all' aurora per poi lasciar sorgere un'alba???? Gran parte dei FRATELLI  mameliani del nord, per un ventennio a questa parte hanno gridato alla secessione, oggi si accontentano del Federalismo.... avranno anche le loro ragioni , ma non sanno che le loro ragioni sono le NOSTRE ragioni.
E' tempo che il Sud riguadagni il tempo ed il terreno perduto, Sud che è stato fautore e primo attore di rivolta allo straniero.
Tutto, proprio tutto è e sarà sempre tinto di BIANCO, ROSSO e VERDE.
VIVA  VERDI

Giuseppe Mozzi

L’ITALIA E’ DONNA,

lo dimostra il fatto che essa sia rappresentata dall’iconografia  di una statuetta femminile ,lo dimostra il fatto che dietro la sua nascita ,oltre a milioni di uomini ci sia la presenza  di donne ,anche se spesso non sono citate nei libri di storia e a loro viene riconosciuto ben poco . Le donne dell’unità ,le donne che sono scese in piazza a manifestare per i loro diritti in quei giorni ,erano donne appartenenti alla borghesia cittadina ,quella borghesia che rappresentava il cuore della mobilitazione . Molte di quelle donne si impegnarono  in prima persona all’attività cospirativa ,impegnandosi come giardiniere nelle carbonerie nella Giovane Italia . Tramite le sottane di queste donne coraggiose passavano sottoscrizioni ,proclami ,scritti patriottici o raccolte fondi . Mani di donna ,mani delicate e mani indurite dal lavoro ,mani insospettabili che hanno contribuito all’unificazione del regno. Molte di queste donne se la cavarono ,molte invece furono punite ed altre ancora esiliate . Donne di tutta Italia ,che per la prima volta ,dal nord al sud ,dal più piccolo paesino alla più grande città si univano ,si alleavano con gli uomini ,si schieravano in campo e combattevano ,donne che hanno sacrificato la loro vita ,la loro famiglia ,i loro affetti ,i loro sogni ,per presentarsi all’appuntamento più importante della storia ,l’appuntamento del 1861 che vedeva la nascita della nostra patria . Un particolare sguardo va posto alla storia di una grande donna dell’ Unità d’Italia : Adelaide Cairoli , una donna colta, una vera intellettuale dell’800 che ha saputo incarnare gli sviluppi delle coscienze femminili dell’epoca e che potremmo definire madre della Nazione. E madre lo è stata, effettivamente: dei grandi fratelli Cairoli, così cari al Risorgimento. Che il suo comportamento sia stato esemplare lo dimostra la storia. Nata nel 1806, a Milano, apparteneva alla famiglia del conte Bono ebbe la possibilità di condurre i suoi studi presso il collegio religioso Reale di Verona. A diciotto anni si sposa con Carlo Cairoli, già vedovo con due figli, di dieci anni più anziano di lei , da cui ebbe otto figli.  Donna colta e generosa, di grande religiosità, curò personalmente la cura e l’educazione dei figli indirizzandoli verso l’amore per la patria. La sua attività per l’Unità d’Italia si tradusse nel finanziamento di giornali patriottici e ospitando un salotto politico dove accoglieva uomini di cultura e politici. Intratteneva inoltre rapporti epistolari con molti intellettuali dell’epoca. Durante la guerra del risorgimento (in particolare nella spedizione a Roma) vede morire tutti i suoi figli, tranne Benedetto che diventerà Primo Ministro Italiano e che la seppellirà. Morta nel 1871 è stata sepolta a Gropello accanto la tomba del marito. Un monumento ne ricorda la memoria. Di lei Garibaldi disse:  “L’amore di una madre per i figli non può nemmeno essere compreso dagli uomini … Con donne simili una nazione non può morire”. Grazie a donne come queste che l’Italia è sopravvissuta e vive ancora ,forse saranno state donne radical chic , ma è proprio loro che dobbiamo ringraziare e magari fare della loro figura dei veri e propri idoli per le nostre future generazioni.

Natascia Nuccillo

IL PROBLEMA DEL MEZZOGIORNO E IL BRIGANTAGGIO DURANTE I PRIMISSIMI ANNI DELL’UNITA’.

Il quadro generale che si presentava all’Italia appena unificata era lo scarso rapporto tra i vari Stati preunitari. Erano inoltre mancati assolutamente i rapporti con il Regno delle due Sicilie, intorno al quale il re Francesco II aveva eretto una sorta di “muraglia cinese” (come dissero gli esuli napoletani fuggiti dal regno), dopo la rivoluzione del 1848. Fino al 1859 Cavour aveva creduto impossibile assimilare al nascente Stato italiano il Regno borbonico, né fino a quel momento aveva dimostrato particolare interesse verso gli altri Stati della penisola (non era mai andato più a sud di Firenze e si vantava di conoscere e di amare particolarmente l’Inghilterra). Questo difetto del conte di Cavour veniva sottolineato allora soprattutto da Massimo D’Azeglio il quale, riferendosi alla sua politica, affermava che si era “fatta l’Italia senza averla mai studiata né conosciuta”. Durante la prima fase del processo di unificazione Cavour aveva espresso l’intenzione di costruire l’Italia mediante un programma di decentramento e di autonomie, sulla falsa riga di quanto aveva già fatto in Piemonte. Sul finire del 1860, però, aveva già cambiato il suo atteggiamento nel procedere politicamente. Secondo il parere di numerosi storici, a modificare il suo atteggiamento erano state le tante informazioni che gli spedivano a Torino i suoi collaboratori dal Sud. Colui che esercitò maggiore influenza su di lui fu Luigi Carlo Farini, il luogotenente principale delle province napoletane. Prima ancora di arrivare a Napoli, il 27 ottobre 1860 da Teano (dove si era fermato per assistere all’incontro di Garibaldi con Vittorio Emanuele II) esprimeva nelle sue parole la profonda delusione dovuta all’incontro con un ambiente assai diverso da quello immaginato. Le sue parole al riguardo sono estremamente emblematiche: “Che paesi sono mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile.”. Una volta giunto a Napoli, la situazione ai suoi occhi non cambiò, e Cavour continuava a ricevere lettere angosciate e scoraggiate per le condizioni di arretratezza generale che il suo corrispondente vi aveva trovato. Anche dopo la sostituzione di Farini e l’invio al Sud di altri funzionari, le cose rimasero sempre le stesse. Il conte si decise, così, di abbandonare definitivamente le idee di decentramento, perché  aveva capito che il “costume e lo spirito pubblico” erano così distanti tra le varie parti d’Italia che le diverse realtà non potevano essere in grado di autogovernarsi, a meno che non si volesse mettere a rischio l’unità nazionale. Fu così che con i primi decreti emanati dal primo ministro Bettino Ricasoli si sottolineava la necessità di forzare il processo di fusione degli italiani e soprattutto del Mezzogiorno, e si adottò definitivamente l’accentramento amministrativo. Nel Meridione si manifestavano così le prime tendenze autonomistiche, che vanno interpretate anche come una protesta contro gli errori dei primi governi provvisori che avrebbero dovuto gestire la transizione. Il primo di questa serie di errori era stato commesso proprio dallo stesso Farini, il quale aveva chiamato a far parte del consiglio di luogotenenza anche gli esuli del 1848. Questi non solo non conoscevano le loro terre, in quanto le avevano abbandonate più di dieci anni prima, ma vi si erano distaccati a tal punto che molto spesso esprimevano giudizi di disprezzo. In tutto ciò il governo era intenzionato a operare con rapidità nel processo di integrazione dell’ex Regno borbonico, con il mantenimento della pubblica sicurezza e l’introduzione di una serie di lavori pubblici volti ad attenuare la disoccupazione.
Fu in questo quadro sociale e politico che si verificò l’esplosione del brigantaggio, che costituì un grave pericolo per l’Unità. La delusione delle masse contadine per il mancato mantenimento delle promesse di Garibaldi di un immediato miglioramento si unì al disfacimento dell’esercito borbonico, i cui soldati si ribellarono o perché rimasti fedeli al Borbone oppure perché volevano evitare le norme per la leva obbligatoria indette dal neonato governo italiano. L’ex re delle due Sicilie Francesco II intendeva servirsi dei briganti per riconquistare il regno perduto.
Questo fenomeno poneva il gravissimo problema dell’immagine di un’Italia debole e fragile nei confronti degli altri Stati europei. Era di fondamentale importanza mostrare all’Europa che il brigantaggio non costituiva un pericolo per la stabilità nazionale. Si decise allora di ricorrere alla forza, che appariva all’epoca per la maggioranza del parlamento l’unico rimedio possibile. Agli ordini del generale Enrico Cialdini, luogotenente a Napoli, furono inviati 50mila uomini. Agli assalti e alla ferocia dei briganti, l’esercito nazionale rispose con altrettanta violenza. Ci furono molti morti; sotto questo aspetto bisogna ricordare l’episodio di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi nella provincia di Benevento, che vennero completamente distrutti da un distaccamento dell’esercito, come risposta alle azioni commesse dai briganti, sostenuti dagli abitanti del luogo. Nel frattempo, nel novembre 1861, Cialdini fu sostituito dal generale Alfonso La Marmora. Vennero inviate, sotto il suo comando, ulteriori truppe tanto da raggiungere 70 mila unità. Nonostante l’ingente numerosità dell’esercito messo a sua disposizione e i poteri straordinari conferitogli, questa triste piaga continuava ad imperversare nelle campagne. La legge Pica, approvata nell’agosto del 1863, inflisse un duro colpo e contribuì al dissolvimento del brigantaggio. Questa legge, che prese il nome dal deputato che la propose, stabiliva nelle province dichiarate in “stato di brigantaggio” che i tribunali militari avrebbero dovuto occuparsi della giustizia, e alle giunte provinciali conferiva il potere di assegnare il domicilio coatto a “oziosi, vagabondi, camorristi” e a chiunque fosse sospettato di sostenere i briganti.
Qualche numero: le bande accertate (con un numero variabile da 5-10 persone a 100), furono 388; i briganti uccisi (dal 1861 al 1865) furono 13.853.

Antonio Marcello

NASCITA DI UNA NAZIONE

Dopo la caduta di Napoleone I, il famoso Congresso di Vienna nel 1815, volle ristabilire lo status quo con questa suddivisione:
·        Regno di Sardegna: Savoia, Nizza, Piemonte, Sardegna ed inglobando il territorio della Repubblica di Genova, confermato ai Savoia nella persona di Re Vittorio Emanuele I;
·        Regno Lombardo - Veneto: comprendente la Lombardia, con Mantova, il Veneto con Venezia, sotto l’amministrazione diretta dell’Impero d’Austria;
·        Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla: concesso in appannaggio a Maria Luisa d’Absburgo-Lorena, già moglie di Napoleone I e figlia dell’Imperatore d’Austria, col patto che alla sua morte lo Stato sarebbe ritornato ai legittimi sovrani, i Borbone;
·        Ducato di Modena, Reggio e Mirandola: lo Stato fu ereditato dal duca Francesco IV d’Absburgo-Lorena-Este, figlio dell’ultima discendente estense e da parte di padre, primo cugino dell’Imperatore Francesco I d’Austria, si era sposato con Maria Beatrice di Savoia, figlia del Re di Sardigna;
·        Ducato di Massa e Principato di Carrara: furono assegnati in vitalizio a Maria Beatrice d’Este, madre del duca di Modena, con la clausola che alla sua morte lo Stato sarebbe stato annesso al Ducato di Modena;
·        Ducato di Lucca: venne concesso alla famiglia dei Borbone di Parma, nella persona della duchessa Maria Luisa e del figlio Carlo Ludovico, in attesa di ritornare in possesso del Ducato di Parma e Piacenza alla morte di Maria Luisa d’Austria, poi annesso al Granducato di Toscana;
·        Granducato di Toscana: ritornò a Firenze la “tertur-genitur” austriaca degli Asburgo, nella persona del granduca Ferdinando III di Lorena, fratello cadetto dell’Imperatore d’Austria Francesco II;
·        Stato Pontificio: comprendente Lazio, Umbria, Marche e le Romagne, con città principali: Roma, Ancona, Bologna, Ferrara, sotto la sovranità del Romano Pontefice pro – tempore;
·        Regno di Napoli e Sicilia (dal 1816 Regno delle Due Sicilie): con il confine a Nord del garigliano, comprendeva tutto il Mezzogiorno italiano, ivi compresa la Sicilia, ritornò a re Ferdinando IV di Borbone, poi Ferdinando I delle Due Sicilie.
L’Austria ritornò ad essere la Potenza egemone della Penisola, sia direttamente, controllando il Lombardo-Veneto, sia indirettamente con rami minori della sua famiglia imperiale a Modena e Firenze, ma anche i sovrani degli altri Stati italici erano comunque, sottoposti ad una sovranità limitata, per i  vincoli matrimoniali con Vienna. Naturalmente questi 7 Stati, contando che Massa e Lucca vennero poi inglobate in altre entità, avevano diverse legislazioni, codici, amministrazioni, moneta, ecc., ed a differenza degli Stati germanici, i quali erano riusciti nel 1815 a formare una “confederazione” tra di loro, i nostri “staterelli” non riuscirono mai prima del’Unificazione a giungere ad una parvenza di confederazione, federazione o quant’altro, dilaniati fra le solite gelosie sovrane e con la Chiesa che non ambirà mai a proporre una vera Unità! Fu l’eredità rivoluzionaria francese, a “seminare”, dunque nei cuori e nelle menti di alcuni strati della società civile italiana, militare prima e borghese poi, quei sentimenti che in mezzo secolo portarono un Paese diviso da secoli sul cammino dell’indipendenza e dell’unificazione. I patrioti sperarono dapprima tra il 1831 ed il 1834 di affidarsi a re Ferdinando II di Borbone, ma il suo paternalismo autoritario mal si conciliava con la sete di libertà, non solo, si rivelò il sovrano borbonico degno erede della sua stirpe, pronta ad assecondare e poi a tradire le speranze della società meridionale, la quale fu la prima tra il 1820 ed il 1821 a chiedere una carta costituzionale; come nel 1848 partirono dalla Sicilia per proseguire a Napoli le istanze per un governo democratico, sempre e comunque soffocate nel sangue dal regime di Ferdinando II. Ecco quindi che le “speranze d’Italia” trovarono nel Piemonte di Carlo Alberto e poi in quello del successore Vittorio Emanuele II, nuova linfa per costruire una Nazione unita dalle Alpi alla Sicilia. Fu un processo con dei limiti, certo, ma non possiamo negarvi la partecipazione non solo di una minoranza colta e borghese, ma anche del popolo, dei giovani, delle donne. Tutti si sacrificarono da Nord a Sud per la Patria. Fu grazie all’apostolato di Mazzini, al coraggio di Garibaldi, all’intelligenza di Cavour, alla caparbietà di Vittorio Emanuele, se l’Italia arrivò, seppur in ritardo, nel “concerto delle Potenze” europee, con mille problematiche, certo, ma anche con lo spirito del sacrificio dei fratelli Bandiera, di Pisacane, dei martiri di Belfiore, del Cilento, ecc. Continuare a “sparare” sul Risorgimento e sui suoi protagonisti non aiuta certo, alla luce di nuovi documenti, a comprendere che il processo unitario seppur con molte problematiche era ormai necessario e vitale per far sì che “un Paese di morti” (Lamartine), “un’espressione geografica” (Metternich), diventasse al parti degli altri grandi Paesi europei, una sola entità: politica, economica, sociale, culturale. Anche l’espressione “fatta l’Italia, ora bisogna fare gli Italiani”, erroneamente addebitata a Massimo d’Azeglio, venne coniata nel 1896 dal senatore Ferdinando Martini in altro contesto lessicale, semmai “fatti gli Italiani, bisognava fare l’Italia”… Persistere ad accusare il Risorgimento e l’unificazione dei mali odierni del Mezzogiorno, significa non avere letto bene la storia, quella con “S” maiuscola, né tantomeno gli scritti di studiosi e storici: da Giuseppe Galasso e Sergio Romano, da Lucio Villari al compianto mio maestro Alfonso Scirocco, scomparso da pochi mesi. E’ un quarto di secolo che tento, di illustrare in convegni, conferenze, scritti, la grande stagione risorgimentale, che fu principalmente una vera e propria “rivoluzione” non solo politica ma culturale e sociale, coinvolgendo strati di popolazione fino ad allora emarginata e costretta all’esilio, alla prigionia, al patibolo…Nessuno vuole demonizzare i Borbone, hanno avuto molte qualità che col tempo tuttavia sono andate disperse in un “paternalismo” inadeguato a rispondere alle nuove realtà della società meridionale, le quali nonostante i controlli di Polizia, anelavano a seri cambiamenti costituzionali e riformisti.
I lettori del “Sassolino” devono sapere che la principale impresa economica del Regno delle Due Sicilie pre-unitario era la Chiesa, con un clero che numericamente superava di gran lunga quello di un Paese molto più grande come la cattolicissima Francia! Il patrimonio ecclesiastico ammontava a ca.40 milioni di Lire dell’epoca! Al clero era appaltata anche l’istruzione pubblica, infatti l’analfabetismo nel Sud era dell’86% con punte del 90% in Sicilia, terra mai amata dai Borbone. Tra il 1830 ed il 1859 gli anni di regno di Ferdinando II, la spesa pubblica fu irrisoria. Nel 1858, ultimi dati contabili certi, su un attivo complessivo di 32.800.000 ducati, lo Stato borbonico ne spese per opere pubbliche appena 2.216.000 a fronte di 11.911.000 per il mantenimento delle forze armate e dei reggimenti mercenari di bavaresi e svizzeri a tutela della famiglia reale! Indigenti i quartieri popolari della capitale, Napoli, la quarta metropoli d’Europa, gli ospedali erano così fatiscenti che gli stessi poveri della città si rifiutavano di ricoverarsi! Per le nozze del duca di Calabria Francesco con Maria Sofia di Baviera, il governo decise di tagliare i fondi per la Sanità onde coprire le ingenti spese. Su 1.828 comuni napoletani, ben 1.431 non erano collegati viabilmente tra loro; esistevano in un Reame così esteso solo tre strade postali! Alla vigilia dell’Unità, vi erano solo 125 Km di ferrovie, nonostante il Paese avesse avuto il primato della prima ferrovia italiana, questi pochi chilometri collegavano solo alcuni siti regi e re Ferdinando II aveva vietato alle locomotive di procedere sotto eventuali gallerie per timore di attentati! L’assenza di adeguate opere pubbliche ritardò pesantemente l’adeguamento del Sud al resto dell’Italia. Nel 1864 la linea ferroviaria adriatica collegò Bari a Bologna seguita da altri tratti nel volgere di pochi lustri, onde consentire anche alle regioni del meridione di usufruire di questa importante innovazione sia dal punto di vista economico che sociale. Su 9 milioni di abitanti, gli studenti del Regno erano solo 66mila!, un terzo dei comuni era sprovvisto di scuole primarie. Lo storico Paolo Macry osserva: “E’ clamoroso il gap che divide Napoli tanto dai grandi centri burocratici, dalle altre ex capitali, dalle città dello sviluppo economico, quando da numerosi centri di taglia media e con forti caratteri rurali, come può essere il caso di Bologna”. Per quanto riguarda l’agricoltura, in ingegnere borbonico, Carlo Afan de Rivera scriveva nel 1833: “Dacchè le nostre pianure e specialmente quelle in riva al mare rimasero spopolate ed incolte per effetto delle calamità politiche, cessò affatto l’industria dell’uomo nel regolare il coro delle acque che le attraversavano. Nel tempo stesso i disboscamenti e dissodamenti operati ne’ monti (dalle popolazioni ritiratesi ad abitare là), grandemente contribuirono a disordinare l’economica delle acque stesse che devastarono le sottoposte pianure”. La tanto decantata industria pre-unitaria del Sud, viveva esclusivamente sotto l’ombrello protezionistico delle commesse statali, in un mercato, quello europeo, il quale aveva abbandonato tale politica da decenni.
Come affermò l’economista e futuro Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, in riferimento alla politica fiscale borbonica, “…Troppa essere la predilezione per le imposte sui consumi e sommo il timore di scontentare i ceti medi con le imposte sulle professioni, sui commerci e sulle industrie…Le segretezza dei documenti finanziari; le cause del debito pubblico napoletano (meno consistente di quello piemontese) ma dovuto alle spese di occupazione di soldatesche straniere accorse nel Regno a ristabilire e difendere la dinastia, la inconsistenza delle opere pubbliche intese a crescere la potenza economica del Paese…Non esiste documento storico il quale possa essere a maggior ragione ricordato dai teorici delle finanze a sostegno delle tesi che le imposte gravavano sui popoli solo quando sono estorte da governi oppressori ritornati sulle punte delle baionette straniere, com’era il governo borbonico…”. Un’attenta e critica  analisi del sistema finanziario dei Borbone fu descritto con dovizia di particolari da Giovanni Carano-Donvito, collaboratore di Piero Gobetti, nella quale pose in luce come l’ex governo napoletano “…se poco chiedeva ai suoi sudditi, pochissimo spendeva per essi e questo pochissimo spendeva anche male…”. Secondo gli studiosi del credito, Muzzioli e Demarco, “…la penuria di piazze bancabili era anche responsabile, insieme alla scarsa mobilità dei capitali, del ristagno nella circolazione della moneta. Si calcola che all’unificazione la circolazione monetaria delle province napoletane fosse doppia di quella di tutto il resto d’Italia”. Brigantaggio e camorra furono sempre al “soldo” del governo borbonico che utilizzava questo “cancro” a proprio uso e costume in determinati periodi, anche per controllare i sovversivi ed i liberali!
Il patriota e letterato molisano, Gabriele Pepe, affermava: “Quando si parla dell’Italia meridionale e delle regioni circostanti Roma, non bisognerebbe mai dimenticare che si parla di paesi nei quali il brigantaggio è stato endemico per secoli; dove, a dirla con schiettezza, il brigantaggio era una classe sociale e il capo brigante una forza contesa dai politici”. Un’intera generazione di intellettuali, giornalisti, politici, ecc., chiamati in modo dispregiativo da Ferdinando II, “pennaruli”, furono costretti a lasciare le proprie famiglie e case, trovando “rifugio”, primo esempio di emigrazione integrata, proprio nel tanto “odiato” Piemonte sabaudo, ove venne votata il 16 dicembre 1848 la prima legge a favore degli immigrati provenienti dalle altre regioni italiane.
Viva l’Italia ora e sempre!                                                                             

Giuseppe Polito

GUIDA NELLA STORIA D’ITALIA

Ben ritrovati cari lettori. L'Italia ha da poco compiuto 150 anni. O meglio, dall'unificazione (presunta o tale che sia) del nostro paese sono trascorsi 150 anni. Questo numero, l'ottavo, è dedicato esclusivamente a questo evento. Ci abbiamo lavorato molto a questa edizione per offrirvi una panoramica ben definita sull'Unità nazionale. Si parte con una significativa frase di Mazzini sull'amor di Patria, per proseguire con un articolo di Giuseppe Polito che traccia le varie suddivisioni dell'Italia in quel tempo. Successivamente Antonio Marcello ci descrive una situazione non certo brillante e rosea per il Sud Italia, situazioni che non troviamo sui testi storici e che, ahimè, vengono nascoste ed omesse. Poi Natascia Nuccillo sottolinea il ruolo della donna con alcune donne coraggiose che si sono contraddistinte. Infine troviamo delle opinioni di Vincenzo Minichino e di Giuseppe Mozzi. Vi auguriamo una buona lettura.

Andrea De Luca

LE PAROLE DI MAZZINI SULL’AMOR DI PATRIA

L’11/09/2009 su Il Mattino viene pubblicato un articolo del nostro concittadino Pasquale Fusco. Riproponiamo le parole del grande Mazzini tratte appunto da quell’articolo per aprire questo numero de Il Sassolino dedicato interamente all’anniversario dei 150 anni dall’Unità d’Italia.
 la Patria è come la vita. La Patria è la vita del Popolo. Dio ve la diede; gli uomini non possono a modo loro rifarla. Gli uomini possono, tiranneggiando, impedirle per breve tempo ancor di sorgere. Ma non possono far ch’essa sorga libera, oppur diversa da quel ch’essa è. Dio che creandola sorrise sovr’essa, le assegnò per confini le due più sublimi cose ch’ei ponesse in Europa, simboli dell’eterna forza e dell’eterno moto, l’Alpi e il Mare. Sia tre volte maledetto da voi e da quanti verranno dopo voi qualunque presumesse di segnarle confini diversi”.

La redazione