domenica 13 novembre 2011

SILVIO BERLUSCONI PREMIER, LE ULTIME ORE. IL RACCONTO DI UNA STORIA ITALIANA

articolo tratto da ilfattoquotidiano.it

Dalla discesa in campo all'invito a comparire di Napoli, dai rapporti con gli alleati all'editto bulgaro, dalla guerra alle toghe rosse ai 'coglioni' di sinistra, fino al discorso del predellino, al bunga bunga e alla caduta dei giorni nostri: i diciotto anni con il Cavaliere significano Seconda Repubblica

“Se fossi a Roma non avrei dubbi, voterei Fini”. Comincia così l’avventura politica di Silvio Berlusconi, il 23 novembre 1993, all’inaugurazione del centro commerciale Euromercato di Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna. Le voci sulla ‘discesa in campo’ c’erano già, ma questa è la prima dichiarazione politica di peso. Gianfranco Fini è il segretario del movimento sociale italiano e si candida a sindaco di Roma contro Francesco Rutelli (che vincerà). La scelta di campo è netta perché Alleanza nazionale non è ancora nata e nelle macerie politiche del post Tangentopoli il Cavaliere si schiera con l’esponente neofascista, convinto che intorno a lui si raggruppi “quell’area moderata che si è unita e può garantire un futuro al Paese”. Insieme faranno tanta strada. Berlusconi ‘sdogana’ Fini nell’arco costituzionale, An diventerà un alleato chiave di Forza Italia. Seguiranno periodiche crisi, fino alla ‘fusione fredda’ dei due partiti nel Pdl, poi la rottura definitiva nell’aprile 2010 (il celebre “Che fai, mi cacci?”) e la nascita di Fli, oggi in prima fila nell’affossare il presidente del Consiglio. E, forse, a porre fine alla sua parabola politica.

DISCESA IN CAMPO E VITTORIA TRADITA.

La discesa in campo, quella vera, arriva il 26 gennaio 1994, tramite videocassetta accuratamente confezionata che da Arcore è recapitata a tutti telegiornali. Cosa che è salutata come segno di modernità rispetto alla Prima Repubblica (non è passato molto tempo dai governi guidati dagli Andreotti e dai Fanfani), con tanto di calza sulla telecamera per addolcire l’immagine. Ma la videocassetta anticipa anche lo stile che il Cavaliere avrebbe adottato in politica: stare il più lontano possibile dalle domande dei giornalisti. Così in prima serata e a reti unificate è servito un salmo rassicurante: “L’Italia è il paese che amo…”. L’ingresso in politica è motivato dalla necessità di salvare il paese dal “governo delle sinistre e dei comunisti”. Il costruttore di Milano 2, il padrone della Fininvest, l’uomo che aveva inventato la tv commerciale in Italia si candida a governare il Paese.

Berlusconi sfonda, e alle elezioni di quella primavera sconfigge la “gioiosa macchina da guerra” capitanata da Achille Occhetto, l’uomo che ha appena mandato in soffitta il Partito comunista italiano l’ha sostituito con il Partito democratico della sinistra. L’imprenditore milanese ha in dote buona parte degli elettori della Dc e del Psi, oltre alla fondamentale alleanza con la Lega Nord, con gli ex missini, con il Ccd di Pierferdinando Casini. Indubbiamente, però, pesa il fascino dell’imprenditore che si è fatto da solo, che ha creato ricchezza e posti di lavoro, che promette la “rivoluzione liberale”, che sa comunicare e usare le televisioni (le proprie, e non solo). L’evidente conflitto d’interessi tra il politico e il monopolista della tv non scalda eccessivamente gli animi.

Sette mesi dura il primo governo Berlusconi. Tra i ministri si ricordano Cesare Previti (alla Difesa) e Giuliano Ferrara (Rapporti con il parlamento). La prima rottura con la Lega di Bossi avviene con il cosiddetto ‘decreto salvaladri’ architettato per far uscire dal carcere molti detenuti dell’inchiesta Mani pulite. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni (il primo non democristiano del Dopoguerra) dirà di essere stato “ingannato”: gli hanno fatto leggere “un decreto diverso” . Il 22 novembre, il presidente Berlusconi è impegnato a Napoli in un vertice internazionale sulla criminalità organizzata. Lì lo raggiunge un invito a comparire, nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Milano per tangenti pagate dalla Finivest alla Guardia di Finanza, per ammorbidire gli accertamenti fiscali. Le mazzette sono state effettivamente versate, come dimostrano le condanne in cassazione per alcuni dirigenti Fininvest, ma Berlusconi alla fine ne uscirà assolto. Quel 22 novembre segna il simbolico inizio di un’altra battaglia che segnerà il ventennio berlusconiano: l’aspra lotta contro la magistratura “politicizzata”, le “toghe rosse”, i giudici “antropologicamente diversi dalla razza umana”, “cancro da estirpare”, e persino dediti al “turismo sessuale”.

Il 21 dicembre 1994 Bossi molla Berlusconi. Per anni il centrodestra attribuirà all’invito a comparire di Napoli il crollo di quel governo, ma per la verità la mozione declamata da Umberto Bossi in aula non ne fa cenno, mentre è densa di proclami antifascisti. La prima esperienza a Palazzo Chigi termina con pochi risultati e molto livore. Berlusconi e Fini giurano solennemente che con Bossi non vogliono avere più nulla a che fare: “Neppure un caffè” (Fini) con quel “dissociato mentale” (Berlusconi). Bossi, dal canto suo, fa partire la micidiale campagna su Berlusconi “mafioso di Arcore“.

Per colui che è ‘unto del signore’ comincia la “traversata del deserto”. L”uomo del fare’ è confinato all’opposizione, prima di un governo tecnico capitanato da Lamberto Dini, poi del governo Prodi, con l’Ulivo uscito vittorioso dalle elezioni del 1996. E’ opinione comune che in quegli anni il centrosinistra si sia giocato tutto, e se lo sia giocato molto male. Un Berlusconi debole e demoralizzato viene resuscitato dalla Commissione Bicamerale voluta da Massimo D’Alema, che dovrebbe fare storiche riforme istituzionali e non porterà a nulla, se non a nuove leggi di procedura penale gradite a Berlusconi e a tanti altri imputati di Tangentopoli. Nel frattempo, dopo appena due anni di governo, Rifondazione comunista guidata da Fausto Bertinotti toglie la fiducia a Romano Prodi, che si dimette. Negli anni successivi, il centrosinistra si avvita in una serie di fallimenti con quattro governi in cinque anni: un Prodi, due D’Alema, un Giuliano Amato. Le regionali del 2000 si risolvono con una generale sconfitta dell’Ulivo (che porterà alle dimissioni del D’Alema due). L’aria è cambiata e Berlusconi capisce di potercela fare di nuovo. Anni di insulti e recriminazioni con Bossi vengono spazzati via, querele miliardarie comprese. In vista della concreta possibilità di vittoria, la vecchia alleanza del 1994 si rinsalda nella Casa delle Libertà. Quella del 2001 è la celebre campagna elettorale dove debuttano i manifesti 6 metri per tre, con il faccione del Cavaliere, il cielo azzurro e slogan di grande fortuna, a partire da “Meno tasse per tutti”. Altro momento topico, la firma del ‘contratto con gli italiani’ davanti a un ossequioso Bruno Vespa, a Porta a Porta.

Il candidato del centrosinitra Francesco Rutelli è sconfitto senza appello. Non mutano il sentimento degli elettori i mille sospetti accumulati sulla biografia del cavaliere, dai rapporti accertati con Cosa nostra all’origine misteriosa dei primi finanziamenti, al pagamento di tangenti, ai tanti collaboratori finiti in pesanti guai giudiziari, tra i queli i più stretti, Marcello Dell’Utri e Cesare Previti. Succede il finimondo quando questi temi, fino ad allora confinati in libri e testate “di sinistra”, approdano in televisione in prima serata, grazie al comico Daniele Luttazzi che invita a Satyricon, su Raidue, Marco Travaglio, autore con Elio Veltri del libro L’Odore dei soldi. Anche se Berlusconi affermerà in seguito di avere perso “due milioni di voti” per quella trasmissione, le elezioni del 2001 sono l’ulteriore conferma che la questione morale fa poca presa sull’elettorato, ben più allettato da promesse di alleggerimenti fiscali e di un’attività economica più libera. Di fatto, però, i pochi liberali presenti nella Cdl vengono emarginati per far spazio a componenti con ben altre radici culturali, dagli ex democristiani a Comunione e Liberazione, dagli ex fascisti ai leghisti che rispolverano il protezionismo.

CINQUE ANNI AL GOVERNO, E NESSUNA SCUSA
E’ la legislatura del 2001-2006 il cuore del ventennio berlusconiano. Cinque anni filati di governo con una solida maggioranza e nessuna scusa. Che invece sarà trovata, con gli attentati dell’11 settembre, i cui contraccolpi economici verranno evocati negli anni successivi come giustificazione del mancato mantenimento delle promesse esibite sui cartelloni. In questa fase, l’Italia berlusconiana si appiattisce sulle posizioni del presidente degli Stati Uniti George W. Bush, anche sul contestato intervento militare in Iraq del 2003, che vede contrari tra gli altri i principali partner europei, Francia e Germania. Nelle librerie macinano copie le invettive anti-islamiche di Oriana Fallaci, che entra immediatamente nel Pantheon del centrodestra berlusconiano. A mano a mano che sfuma il “nuovo miracolo italiano”, il Cavaliere comincia ad accarezzare la vanità di lasciare “un segno” nella politica internazionale, accampando meriti nell’avvicinamento fra Stati Uniti e Russia e in altri mutamenti epocali. Ma nel contempo dimostra un’attrazione fatale per i leader più discussi del globo. Solida l’amicizia con il russo Vladimir Putin, democraticamente eletto in un Paese dove la democrazia mostra ampie falle e i giornalisti scomodi muoiono ammazzati. Berlusconi va spesso a trovarlo, anche al di fuori delle visite istituzionali. Omaggia e bacia platealmente il libico Muammar Gheddafi, dittatore-canaglia per eccellenza ai tempi della strage di Lockerbie (1988), in cerca di nuova verginità fino alla tragica fine nella rivolta popolare sostenuta dalla Nato. Fino allo sconcertante show al fianco del satrapo bielorusso Aleksandr Lukashenko. Per una dozzina d’anni nessun capo di governo europeo si era azzardato fargli visita, date le pesanti accuse di brogli elettorali condivise dalla comunità internazionale. Fino all’autunno del 2009, quando un pimpante Silvio Berlusconi sbarca a Minsk e lo gratifica così: “Grazie anche alla sua gente, che so che la ama: e questo è dimostrato dai risultati delle elezioni che sono sotto gli occhi di tutti”.

Invece di prendere una piega liberale e antitasse, l’attività parlamentare della legislatura 2001-2006 si dirige subito verso le leggi “ad personam” tese a favorire gli interessi economici e giudiziari di Berlusconi. E’ un provvedimento “minore”, quello che toglie le scorte ad alcuni magistrati impegnati in inchieste scomode, a fare da battistrada e a innescare la prima scintilla dei “girotondi”, il movimento che poi crescerà a mano a mano che le leggi ad personam entreranno in agenda: quella sul ‘legittimo sospetto’, partorita dal senatore Udc Melchiorre Cirami per facilitare la ricusazione dei giudici nei processi, dà luogo a una gigantesca manifestazione promossa a Roma fra gli altri dal regista Nanni Moretti, solitamente schivo. Ancora più imponente è la mobilitazione della Cgil di Sergio Cofferati contro la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il battesimo di piazza del nuovo governo avviene però il 19 e 20 luglio 2001 al G8 di Genova, segnato da violenze di piazza, pestaggi indiscriminati delle forze dell’ordine e dalla morte del manifestante Carlo Giuliani. Il governo Berlusconi, con il suo ampio seguito di ‘garantisti’, chiuderà completamente gli occhi davanti alle responsabilità della polizia e dei suoi vertici. L’altra caratteristica del quinquennio del “massimo splendore” berlusconiano è il ferreo controllo della Rai, che tocca il culmine con l”editto bulgaro’ che apre la strada alla cacciata di Michele Santoro, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi. I temi della “censura” e del “regime” diventano argomento di dibattito quotidiano.

Del “nuovo miracolo economico italiano” non si parla affatto, mentre le cronache sono occupate dal perenne conflitto trra Berlusconi e la magistratura, tra Berlusconi e l’opposizione, tra Berlusconi e i giornali (comprese le più autorevoli testate straniere, come l’Economist e il Finacial Times, non certo di sinistra, anche se qualcuno proverà a bollarle come tali), tra Berlusconi e le istituzioni di garanzia, tra Berlusconi e le più varie circostanze che rendono inattuabili le promesse elettorali. Nel 2004 va in onda lo psicodramma delle dimissioni di Giulio Tremonti, il ‘genio’, il superministro dell’Economia immancabile in ogni esecutivo berlusconiano (salvo poi essere regolarmente travolto dalle critiche, copione che si ripete ai giorni nostri).

SILVIO A PEZZI, LA SINISTRA PURE.
Quello che arriva alle elezioni del 2006 è un Silvio a pezzi. Le regionali del 2005 sono state un disastro, 14 a due per il centrosinistra, resistono solo Lombardia e Veneto. I sondaggi danno il centrodestra irrimediabilmente sotto, la Casa delle Libertà si sfalda, con Casini e Fini seriamente intenzionati ad andare per conto loro. Magari saltando un giro dalle poltrone del potere, ma con il vantaggio di sbarazzarsi per sempre dell’ingombrante leader e giocare in proprio le partite successive. E il centrosinistra, per l’occasione battezzato “L’Unione”, candida alla presidenza del consiglio Romano Prodi, autentica bestia nera del Cavaliere. In questo contesto matura un rapido cambiamento della legge elettorale nel tentativo di limitare i danni: il ministro Roberto Calderoli battezza l’attuale Porcellum.

Invece, ancora una volta, le cose vanno diversamente: la resurrezione è dietro l’angolo. Berlusconi dà il via a una campagna elettorale urlata come non mai, nel tentativo di afferrare per la pancia il suo elettorato deluso e gli ‘indecisi’ meno politicizzati. Arriva a definire ‘coglioni’ gli elettori avversi, rigioca la carta dell’anticomunismo viscerale provocando un incidente diplomatico con la Cina, dove secondo lui in epoca maoista si “bollivano i bambini per concimare i campi”. Alla fine la sconfitta arriva, ma per un pugno di voti. Il governo Prodi non ha una solida maggioranza al Senato – e dall’opposizione Berlusconi scatena una violenta campagna contro i senatori a vita che lo appoggiano, anche se nel 1994 ne aveva beneficiato lui stesso – e vivacchia meno di due anni. Intanto Berlusconi si inventa il Popolo delle libertà, cioè la fusione di Forza Italia e An, in un discorso detto “del predellino”, perché pronunciato dal bordo dell’abitacolo di un’auto in piazza San Babila a Milano. Nel 2008 si torna a votare e Berlusconi rivince, battendo questa volta Walter Veltroni, che aveva lasciato in anticipo la poltrona di sindaco di Roma (e il centrosinistra perderà pure quella, in favore di Gianni Alemanno).

Ma per Berluisconi è l’inizio della fine. Troppo strappi, e una storia personale sempre più impresentabile. Gli alleati storici si defilano. Lo molla Casini, che ormai parla come un girotondino della prima ora, rinfacciandogli il conflitto d’interessi, i guai giudiziari, il fatto di governare pensando solo agli affari propri e di essere un bugiardo. Lo molla Fini, cofondatore del Pdl che ora si fa un partito tutto suo, Futuro e libertà per l’Italia, e da presidente della Camera (lo sdoganamento ha funzionato) martella l’ex alleato con le stesse motivazioni. Resta solo Umberto Bossi, che sette anni dopo il grave ictus che l’ha colpito si esprime per lo più a monosillabi e gestacci. Ma anche la Lega è attraversata dai “mal di pancia”, tra lotte di successione e la base che vorrebbe rompere l’alleanza diventata zavorra. Solo un’ampia servitù politico-mediatica, sempre pronta a negare l’evidenza dei fatti e a immolarsi nei talk show, permette al sistema Berlusconi oltre limiti che in altri paesi non potrebbero essere superati.

LACRIME, SANGUE E "CENE ELEGANTI".
Il tramonto del Cavaliere, l’uomo che ha segnato quasi vent’anni di politica italiana, si tinge di grottesco con il “caso Ruby” e la vicenda “escort”. Nell’estate del 2009 si scopre che il presidente del consiglio di una moderna democrazia occidentale ha l’abitudine di radunare nelle sue residenze decine di ragazze giovanissime – spesso pescate nell’ambiente televisivo – per farle esibire in giochini erotici, scegliendo di volta in volta quelle (al plurale) da far restare per la notte. Le ragazze sono ricompensate con denaro, gioielli, automobili, appartamenti, ma anche incarichi pubblici. Una di queste, Karima el Mahroug detta Ruby Rubacuori, ha frequentato quei festini (“cene eleganti” nella vulgata berlusconiana) da minorenne. E una notte che Ruby era finita in questura a Milano, il premier aveva telefonato al funzionario di turno intimandogli di lasciarla libera, in quanto la ragazzina era niente meno che “la nipote di Mubarak”, l’allora presidente egiziano. E così al lungo curriculum giudiziario del Cavaliere si aggiungono accuse sconcertanti e infamanti per chiunque e a maggior ragione per un leader politico, compreso lo sfruttamento della prostitituzione minorile. Il disonore finale è una citazione nel rapporto annuale del dipartimento di Stato americano sul traffico di esseri umani, non nelle veste di politico impeganto sul tema, ma di imputato in un caso di sfruttamento sessuale.

Così finisce l’era berlusconiana. La crisi globale spazza via qualsiasi sogno di miracolo economico, per far posto a una serie di manovre economiche “lacrime e sangue”, dopo le quali il Cavaliere è costretto ad ammettere a denti stretti di aver “messo le mani nelle tasche degli italiani”. Altro che meno tasse per tutti. L’Italia finisce sotto la tutela dei partner europei, molto preoccupati, anche per la tenuta della moneta comune, l’euro. Tra “fronde” e “malpancisti”, Berlusconi perde i pezzi – compresi personaggi a loro modo simbolici, come l’ex soubrette Gabriella Carlucci passata all’Udc – e li sostituisce con soggetti che hanno più fortuna nelle rubriche satiriche che in quelle politiche. Un nome per tutti, Domenico Scilipoti. Fino all’atto finale.

Dopo quasi vent’anni di Berlusconi e di berlusconismo, resta un generale retrogusto di tempo perso. Il Cavaliere dei miracoli non sarà ricordato né per le tasse abbassate né per aver reso questo paese più ricco, ma per la massima rimasta impressa nelle intercettazioni telefoniche del caso escort: “La patonza deve girare”.

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